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Ulisse e la Rusalka

Un giovane navigante, una notte di tempesta e un'inspiegabile telefonata: la ricetta perfetta per esacerbare tradimenti, enigmi e drammi. 

 Vincitore del 2° premio al concorso nazionale di narrativa "IL GIALLO & IL NOIR" 2014





Porto Mirabello. Ulisse non aveva mai visitato La Spezia prima di allora, ma era evidente quanto il complesso fosse moderno, un melange di architetture che non aspiravano a integrarsi con il resto della città. Nella luce crepuscolare i lampi rimbalzarono sui rilievi che abbracciavano la valle, fotografando sull'orizzonte lontani edifici collinari, simili alle fauci di una fiera. La bionda al suo fianco si fermò alla portiera posteriore della Audi, e non attese che Ulisse o Marco la aprissero per lei ma si accomodò all'interno da sola; 'shvydko', aveva semplicemente mormorato, il laconico corrispettivo ucraino di uno 'schnell' tedesco – 'muoversi'. Ulisse si avvicinò al posto del conducente; il vento gli picchiò in faccia, mutato in un istante dal maestrale a uno scirocco foriero di tempesta.
I panfili al vicino ormeggio erano protetti da una diga foranea alla bocca del golfo, eppure beccheggiavano con violenza; le onde schiumarono contro l'approdo in cemento, spruzzando di salino i neri capelli di Ulisse mentre questi si rifugiava nel tepore dell'automobile. “La Mahmudy è una bestia, ma se la Capitaneria di Porto ha fatto evacuare anche gli yacht più grandi rimanerci sopra è una stupidaggine.” commentò Marco, mentre il motore si accendeva, portandoli verso l'intrico urbano delle strade, fra i palmizi e le magnolie della passeggiata a mare.
“Demirci sa il fatto suo.” mentì Ulisse, sistemando lo specchietto retrovisore, nel quale intravide un lungo spaccato di cosce accavallate, pelle dorata con uno sfondo di pied-de-poule. “E poi c'è John.”
“Ci sarà anche il capitano, ma se il vecchio annega noi rimaniamo disoccupati. E poi mi girano le palle che le leggi non esistano, per lui.” “Quando sei così ricco puoi fare quello che vuoi.”
I due ragazzi condivisero uno sguardo, e gli occhi di Marco guizzarono per un attimo verso il retro con un sorriso sbilenco. “Compresa una modella che ha un terzo dei tuoi anni.”
Ulisse ignorò il commento, e fecero il resto del tragitto in silenzio, fino all'arrivo all'albergo che si appoggiava alla collina più meridionale del golfo.


 

Ancora una volta, la
1moglie di Demirci non attese che i dipendenti del marito aprissero la porta per lei, ma uscì sotto alla pioggia.
“Ulisse, ascolta.” disse in ucraino. “Liberati di lui e poi torna qui. Parcheggia nel garage sul retro e sali con l'ascensore diretto; ti scriverò il codice appena possibile.”
“Sei fuori di testa, Larysa.” rispose Ulisse con un accento identico a quello della donna. “E se tuo marito venisse a trovarti?”
Larysa rimase impassibile. “Il vecchio non verrà. Non viene mai. Muoviti adesso.” Ancora una volta 'shvydko', e si allontanò con lunghe falcate. “Cosa vuole?” chiese Marco, sporgendosi per ammirarne le forme. “Domattina vuole fare shopping. Non penso che le servirà un addetto di sicurezza
oltre a un interprete; quindi se vuoi farti una dormita, accomodati.” Marco sorrise a labbra strette. “Ah, non mi faccio pregare. Ma tu non sognare troppo, rischi di farti del male. È
fuori dal nostro campionato, oltre a essere la moglie di chi ci paga lo stipendio.” Già, rifletté Ulisse senza dire una parola, così fuori dal suo campionato che
avevano fatto sesso il giorno stesso in cui si erano conosciuti, l'anno prima. I due ragazzi attraversarono la città sotto a un acquazzone in crescita, fino al ristorante dove il resto dell'equipaggio stava cenando; adesso doveva solo inventare una scusa per rimanere da solo, cosa che sarebbe risultata sospetta se qualcuno avesse
anche soltanto ipotizzato la tresca. Il cellulare di Ulisse squillò, risvegliandolo dalle elucubrazioni e fornendogli un
pretesto immediato mentre si fermava per far scendere Marco. “Vi chiamo più tardi.” disse semplicemente, e si ri-immise in strada; il telefono
continuava a trillare, il numero 'sconosciuto'. “Pronto.”
“Ulisse. Ulisse can you hear me?” Inglese, con un inconfondibile accento turco. “Yes, mr Demirci, I-” “Shut up and listen!” berciò l'armatore, 'chiudi il becco e ascolta'. Non gli si era
mai rivolto in un modo simile, e un brivido salì lungo la colonna vertebrale del giovane interprete.


 

“Come on the Mahmudiy at once.” un altro comando perentorio, mai sentito sulle labbra del vecchio: 'vieni immediatamente sulla Mahmudiy'. La chiamata fu interrotta dal ritmico tono della linea caduta; Ulisse tentò subito di richiamare il proprio datore di lavoro, ma il numero non era raggiungibile. “Porca puttana.” Era fatta, sapeva tutto, del tradimento di Larysa. Quale altro motivo avrebbe avuto di aggredirlo verbalmente in un modo simile? Perché convocarlo a quell'ora della sera, durante il suo turno libero? Ulisse invertì la marcia e ritracciò il percorso verso il Porto Mirabello, accelerando fra gli alloggi della marina e la mole scura dell'Arsenale militare. Non poteva permettersi di perdere un lavoro tanto remunerativo, non per mero sesso. Con i soldi che guadagnava era in grado di acquistare la compagnia di donne belle quanto Larysa, o quasi. Ma la relazione consumata fra le menzogne era torbidamente erotica... come lo era rubare a un milionario le attenzioni di una femmina che non avrebbe sfigurato fra attrici e modelle. Eppure, rischiare il proprio futuro in quel modo era una follia. “Cos'ho nel cervello!” imprecò Ulisse, picchiando i pugni sul volante; ciononostante, anche in quel momento, il ricordo del corpo perfetto di Larysa fra le sue mani lo scosse con un fremito. Maledetta sirena. Ulisse era conscio della propria sudditanza verso l'ammaliatrice, ma non ne poteva nulla, e in fondo gli andava bene così. Parcheggiò nel punto più distante dal posto di controllo della Capitaneria, e sfidò le ondate costeggiando di corsa la banchina, sotto al diluvio. Saltò sul barcarizzo, e inserì la combinazione numerica sul pannello della porta di entrata, che si aprì scorrendo. I movimenti delle onde erano aumentati, e un infido rollio si era aggiunto al beccheggio; Ulisse attraversò l'ingresso e il corridoio ligneo di tribordo, con gli sguardi austeri nei dipinti di famiglia appesi alle pareti che sembravano giudicarlo. “Mister Demirci?” chiamò, notando che non filtrava alcuna luce dalla porta dello studio. Silenzio. Bussò due volte, ancora nulla.


 

Trattenendo il respiro aprì la porta, e accese la luce; era solo in mezzo al mobilio di mogano. “Mister Demirci? John?” Non ottenne risposta, neanche dal comandante in servizio. Ma Demirci abbandonava di rado le sue stanze, e la cabina di pilotaggio era poco più in alto. Cosa stava succedendo? “Mansur? Vieni qui, bello.” chiamò Ulisse, aggiungendo un fischio insegnatogli dall'addestratore del levriero afgano dell'armatore. Ancora una volta, silenzio. Con un'ansia crescente che gli opprimeva il petto tornò nel corridoio, fermandosi su un uscio a cuspide in stile ottomano. Demirci non sembrava il tipo da fare follie per una donna – per il vecchio turco Larysa era una compagna-trofeo da esibire durante gli eventi sociali, nulla di più. Nondimeno, macabre idee sulla vendetta di un milionario tradito rallentarono i passi di Ulisse. Quando accese la luce della sala mosse d'istinto un passo indietro. Sopra al colorato kilim dell'Anatolia che copriva il pavimento giaceva il corpo di Mansur, immobile. Dopo l'attimo di smarrimento Ulisse si precipitò al fianco dell'animale; era vivo, ma il suo respiro era ridotto a un lievissimo sibilo, le membra immobili. L'allarme nella voce di Demirci era per il proprio cane, non perché avesse scoperto il tradimento della moglie! Aveva scelto di chiamare proprio lui solo perché lo sapeva vicino e, in quanto suo interprete, era nella lista di chiamate rapide dell'armatore. Ulisse emise un lungo sospiro di sollievo, prima di realizzare che comunque Mansur stava morendo; il possente corpo si contrasse appena, e gli occhi acquosi si fissarono nei suoi, come se lo stesse pregando di aiutarlo. Vincendo il timore reverenziale dell'affilata dentatura Ulisse gli aprì le fauci, per cercare di capire cosa impedisse la respirazione; la povera bestia alzò appena una zampa, ma non aveva più le forze per opporsi. Proprio come aveva temuto, una massa scura otturava effettivamente la gola del cane. Ulisse infilò le dita più in fondo che poté, ma non riusciva a raggiungere l'oggetto; quando estrasse la mano c'era sangue misto alla saliva. L'animale stava morendo.



“Spero di non fare un danno, piccolo.” mormorò con una carezza alla lunga pelliccia di Mansur, e lo sollevò afferrandolo per la pancia; diede tre, quattro colpi alla cavità addominale, improvvisando una manovra Heimlich. Poteva funzionare su un cane? Ulisse tentò un ultimo, violento strattone, e cadde sulle natiche per l'inerzia del gesto. Mansur si inarcò subito, e vomitò un lungo fiotto sul pregiato tappeto; con un guaito si voltò verso Ulisse, appoggiando il muso sul suo grembo con lunghi sospiri affaticati. Il sollievo investì Ulisse come una droga. Non solo aveva salvato un povero animale agonizzante, ma Demirci era ancora all'oscuro circa la sua relazione con Larysa. La vita era bella! Con un moto di interesse, scrutò il rigurgito di Mansur, curioso di sapere cosa avesse soffocato un cane di quelle dimensioni. “Oh, Dio Santo!” esplose con una punta stridula di isteria nella voce. In mezzo al tappeto vi era un grosso pollice umano, reciso alla base del metacarpo da una lacerazione frastagliata che si era portata via tutto il muscolo di inserzione nel polso; la carnagione del dito era scura, color caffè. La sensazione di minaccia fisica avvertita da Ulisse increspò uno strato di pelle sulle sue braccia, e il ragazzo si alzò in piedi, reprimendo a fatica un tremito delle gambe; i due unici occupanti della nave erano John e Demirci, rispettivamente un Irlandese dai capelli rossi e un turco più pallido di lui. C'era un clandestino sulla Mahmudiy. L'assenza dei legittimi occupanti dell'imbarcazione gelò il sangue nelle vene di Ulisse, rinforzando le immagini di violenta tragedia che la sua fervida mente gli suggerì. Prese il telefono. Nessuna linea. “Merda, il temporale.” sussurrò, suscitando un guaito del levriero, che si acciambellò ai suoi piedi, stremato. Si impose ignorare le ondate fredde di terrore che lo paralizzavano, e uscì nel corridoio, fra ombre che non poteva scacciare con la pressione di un interruttore dalla posizione in cui si trovava. Il suo respiro era rarefatto come in alta montagna. I gradini verso prua erano illuminati a intermittenza dai fulmini, e sembravano ondeggiare a tempo con il movimento dell'imbarcazione; tanto minaccioso sembrava il percorso che lo avrebbe condotto alla cabina di comando, quanto allettante risultava l'ingresso illuminato dai lampioni del porto. Ulisse si convinse a fuggire. Spalle al muro, rasentò i pannelli lignei, un passo alla volta; a ogni eco di tuoni lontani, a ogni rollio più violento del precedente, faceva scattare la testa – destra e sinistra, verso entrambe le estremità del corridoio. Quando conquistò il pannello a fianco della porta a vetri era passato un quarto d'ora. Uno-cinque-sette-uno.


Le ante si separarono con un soffio; Ulisse fu investito da vento freddo e acqua nebulizzata. “Siiiii-.” esultò con una lunga espirazione. Era salvo, e adesso doveva soltanto trovare la Capitaneria di porto, era sufficiente- La lama lo colpì di poco sotto alle costole fluttuanti sul fianco destro, squarciando il suo piumino, che si tinse subito di vermiglio; tentò di urlare, ma non emise alcun suono. Strinse entrambe le mani attorno al braccio che impugnava il coltello, una delle lame giapponesi della cambusa. Un energumeno dalla pelle scura come la torba lo spinse all'indietro, tappandogli la bocca con una mano compressa da uno straccio insanguinato, e lo costrinse a rientrare con lo strazio dell'acciaio nelle sue carni. L'uomo aveva le proporzioni fiere di un namibiano, e torreggiava su di lui di una testa abbondante. Dopo quella che parve un'eternità l'aggressore ritrasse la lama, e spintonò Ulisse nell'ingresso; il ragazzo premette subito sulla ferita, e con un guizzo mutuato dall'adrenalina riuscì a voltarsi e fuggire. Si sarebbe barricato nella cabina di pilotaggio, avrebbe chiesto soccorso via radio! Udì un grugnito alle spalle, e seppe che il namibiano non si era fatto sorprendere dal suo scatto; accelerò nel buio, sperando che la conoscenza dell'ambiente gli fornisse il vantaggio necessario a seminare il suo aggressore. Superò le ceramiche del bagno, coprì i gradini con un balzo, e si voltò per salire ancora, raggiungendo il vano più alto dello yacht; una volta guadagnata la penombra della stanza sbatté la porta, e la chiuse con due mandate. Afferrò il ricevitore della radio satellitare, premette il tasto del segnale di emergenza, e senza alcuna cognizione ulteriore di quel che avrebbe dovuto fare attivò la comunicazione, urlando 'mayday, mayday!' Le forze lo stavano abbandonando; con una lieve diminuzione dell'adrenalina una fitta alla pancia lo scosse, facendolo cadere in ginocchio. In quel preciso istante la serratura sferragliò, e la maniglia ruotò. Il namibiano aveva un paio di chiavi! L'uscio si aprì, e la grande testa scura emerse dal piano inferiore. Ulisse non era più in grado di fuggire, o tanto meno di opporsi, ma il namibiano non lo aggredì; strabuzzò gli occhi, esalando un respiro rantolante, e scivolò all'indietro, con una caduta rovinosa che risuonò attraverso tutta la Mahmudiy. Passarono lunghissimi istanti, e una chioma bionda emerse dalle scale. Larysa lo vide, notò la sua ferita, e chiuse gli occhi, rimanendo immobile; infine si scosse con un sospiro. In mano stringeva un sottile cacciavite, lucido per gli umori che ne coprivano la sommità. Era salvo. Cercò di tendere una mano verso la sua salvatrice, ma non aveva più forze per farlo. La bella ucraina lo raggiunse nella cabina, e disattivò il segnale d'allarme. “Non dovevi essere qui.” Il suo tono era glaciale; riappese il ricevitore. Ulisse ebbe una scarica di terrore tale che ritrovò la forza di stendere le gambe, per un attimo soltanto; Larysa lo spinse a terra, facendolo crollare all'indietro. “Perché?” riuscì a boccheggiare lui. Larysa gli premette in mano il punteruolo con cui aveva ucciso il namibiano, dopodiché si voltò, e Ulisse la seguì con gli occhi. Più all'interno vide il corpo di Demirci, riverso in una chiazza di sangue viscoso, le sue membra esangui. “Perché. I soldi, ovvio.” spiegò Larysa, mettendo in mano al defunto marito un batticarne sporco di capelli rossi. John. “Non eri parte del piano, ma hai reso tutto più semplice. Almeno risulterai l'eroico dipendente che ha difeso fino alla morte il proprio armatore. All'irlandese va peggio – il codice che l'africano ha usato per entrare qui dentro era suo.” Nient'altro, nessun torto segreto che il marito le avesse rivolto, nessun trauma passato. I soldi.
Gli occhi di Ulisse si chiusero, l'ultimo dettaglio impresso sulla loro retina le lunghe gambe di Larysa che si allontanavano, meravigliose sotto al sipario di tweed. Maledetta sirena.